“Sin da quando siamo nati ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere. E a questo dogma terribile abbiamo sacrificato il nostro corpo, incaricandolo di rappresentare quello che propriamente non siamo, o addirittura abbiamo evitato di sapere.” (Galimberti)
L’insoddisfazione per il corpo nasce soprattutto quando questo comincia ad assumere e affrontare cambiamenti caratteristici del periodo puberale. Questo periodo è associato ad una tendenza ad aumentare di peso, processo normale in questa fase, ed il vedersi troppo grassi si associa spesso ad una percezione negativa di sè e del proprio corpo con la conseguente tendenza ad iniziare diete severe. Infatti, in accordo con O’Dea e Abraham (1999), si può affermare che l’adolescenza è un periodo a rischio per lo sviluppo di una bassa autostima ed insoddisfazione per le forme del proprio corpo e peso. Sfortunatamente però, l’accettazione delle forme e del peso del proprio corpo risulta problematica anche durante l’età adulta.
Le donne, e in misura crescente anche gli uomini, hanno sviluppato una maggiore preoccupazione rispetto al proprio corpo. Preoccupazione che invece di andare nella direzione di maggiore accettazione sembra muoversi nella direzione contraria, fino al punto che l’insoddisfazione corporea è la norma risultante di tale processo nel momento in cui si scade nell’esasperazione di ogni tratto o forma corporea.
La magrezza è diventata il simbolo universale della felicità personale e della realizzazione individuale, tanto che il peso gioca un ruolo fondamentale nella valutazione delle donne. Le donne sono considerate più attraenti, migliori compagne di vita, e più in generale, con connotazioni più positive se sono magre. L’obesità, soprattutto nelle donne, è considerata un handicap, causata unicamente dal mangiar troppo, cosa che può e dovrebbe essere superata con la forza di volontà. Inoltre, le persone in sovrappeso sono considerate stereotipi di pigrizia, avidità ed egoismo.
Appare chiaro che esistono “effetti alone”(valutazioni più positive) associati con la magrezza delle donne; questo non sorprende dato che vige il binomio minor peso uguale bellezza. Questo è confermato da uno studio condotto da Wade et al. (2003) in cui risulta proprio che la personalità delle donne di peso normale è stata valutata più positivamente rispetto a quelle in sovrappeso e questi effetti si sono verificati soprattutto negli aspetti di attrattiva sociale della personalità. Segue quindi che donne di peso normale vengono considerate come aventi personalità socialmente più desiderabile di quelle in sovrappeso. Non è stato ancora stabilito se analoghi risultati possono essere estesi anche al genere maschile, visto che la bellezza influisce anche sulla percezione degli uomini. Tuttavia, considerando che la bellezza è più importante per le donne, gli uomini potrebbero non sperimentare lo stesso tipo di effetto alone che si verifica nelle donne.
Un altro dato clinicamente interessante è il valore del BMI ossia l’indice di massa corporea. Viene calcolato mediante una formula matematica : peso diviso l’altezza espressa in metri al quadrato
BMI: Kg ⁄ m2
Il risultato di questa formula permette di classificare il soggetto in una delle seguenti categorie.
BMI |
Descrizione delle Gamme |
Inferiore a 18.5 |
Sottopeso |
Tra 18.6 – 24.9 |
Peso ottimale |
Tra 25.0 – 29.9 |
Sovrappeso |
Superiore a 30.0 |
Obeso |
es. se un soggetto è alto 1,70 e pesa80 kgil risultato sarà
BMI: 80/(1,70)2 : 80/2,89= 27,68 sovrappeso
Uno dei limiti più evidenti del BMI è che non misura la composizione corporea prendendo in considerazione il rapporto esistente tra massa magra e massa grassa. Dal momento che il BMI non misura direttamente il grasso corporeo, è possibile risultare in sovrappeso pur non essendo obesi. Infatti, alcuni soggetti, molto atletici e con una considerevole massa muscolare, potrebbero risultare in sovrappeso, pur non avendo grasso in eccesso,e non avendo bisogno quindi di perdere peso. Tuttavia, la maggior parte delle persone che risultano in sovrappeso sono anche obese e avrebbero bisogno di perdere peso (Gilmore, 1999).
Diversi studi (Conte, Amoroso, 2002; Sirigatti et al., 2002) hanno evidenziato che i soggetti con un BMI più alto (campione a rischio), sebbene presentassero un valore medio che indicava una situazione di normopeso, rispetto agli altri (campione di controllo), sono più preoccupati del loro aspetto fisico e hanno una maggiore tendenza ad intraprendere diete per dimagrire, rispetto a quelli che hanno lo stesso indice più basso.
Da uno studio precedente (Davis et al., 1997) risulta una associazione, sebbene non lineare, tra BMI e preoccupazione circa il peso. Il narcisismo, con la sua grande enfasi sul corpo come fonte di autostima, è risultato essere un segnale predittivo della preoccupazione per il peso. Quest’ultima era presente in soggetti guidati sia dalla bassa considerazione di sé che dalla preoccupazione nevrotica per i propri corpi, suggerendo che l’immagine corporea generalmente buona di individui narcisistici viene minata quando nella personalità sono presenti anche tratti fortemente nevrotici. Quanto detto è applicabile soltanto ai soggetti con un peso basso o medio infatti soltanto nel loro caso è riscontrabile un collegamento significativo tra questi due gruppi di variabili, cosa che non è stata trovata per quelli che partivano da un peso più consistente.
Difetto di percezione o atteggiamento sbagliato? Alcuni autori (Sepulveda et al., 2001) sostengono l’ipotesi che sia soprattutto l’ atteggiamento e le considerazione di sè che si dimostrano maggiormente associati all’insoddisfazione corporea.
Lo stretto legame tra l’insoddisfazione per il proprio corpo e i DCA è stato più volte sottolineato; questo fenomeno è particolarmente considerato come uno dei fattori responsabili dell’inizio e del permanere dei comportamenti relativi al controllo del peso. Non sorprende quindi che per aiutare una persona che soffre di disturbi dell’alimentazione sia necessario fornire un contesto sociale e personale che le offra la possibilità di sviluppare una immagine corporea positiva, che secondo Garner (1997), è un fattore protettivo ottenibile attraverso semplici strategie: