I concetti di individuazione e libertà di espressione del sé ai quali tutti facciamo automaticamente riferimento quando pensiamo alle fasi di costruzione della personalità in un individuo occidentale, deve essere necessariamente rivisto quando ci approcciamo al percorso evolutivo di una persona che proviene da una cultura diversa come quella araba/musulmana, in cui il focus si accentra più che mai intorno a valori di “autoritarismo/collettivismo” (M. Dwairy).
L’individualismo occidentale, scrive Dwairy, sostituisce l’interdipendenza tra soggetto e collettività (famiglia, tribù o stato) che era presente nelle nostre società rurali, prima dell’industrializzazione e che, invece, vige ancora forte nei popoli di cultura araba/musulmana.
Nel suo lavoro “Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani” osserva come il rapporto tra collettivismo/autoritarismo e ricchezza interna di un paese sia di natura inversa e sottolinea come tra i paesi arabo/musulmani si conti il numero più alto al mondo di persone sotto la soglia di povertà (una persona su 5 vive con meno di 2 dollari al giorno); motivo che giustifica concretamente lo spostamento di migliaia di persone dai loro paesi d’origine in cerca di migliori condizioni di vita. Esistono certo realtà come l’Arabia Saudita ma va ricordato che tutta la ricchezza, lì, sia detenuta da una minoranza: circa l’8% della popolazione araba mondiale.
Nel processo di accoglienza e di cura nei confronti dell’utente di cultura araba/musulmana, dobbiamo quindi tenere presente, che oltre al terapeuta e all’utente, c’è un terzo co-protagonista che non possiamo mai sottostimare : il contesto.
Pensiamo ad esempio al processo di separazione/individuazione noto a tutti noi come il percorso attraverso il quali si riescono a superare gli anni dei conflitti adolescenziali (tra fasi di dipendenza ed autonomia) per approdare al mondo degli adulti fatto di definizione e di responsabilità.
Cosa accade in un contesto dove le regole familiari, i dettami religiosi, l’organizzazione della società rinforzano e mantengono saldi i principi dell’ autorità dei capi (siano essi i padri o gli Imam) e del collettivo (famiglia, tribù, stato) come elementi primari da cui il singolo prende forza per affrontare le prove della vita?
Nelle ricerche sulla misura di un criterio oggettiva dell’identità di sé (OMEIS) svolte da Adams et al. nel 1979, si evince che una socializzazione “autoritaria” generi un livello di identità più dipendente ed un sé meno individuato, e che in genere gli adolescenti provenienti da tali contesti, non sviluppino conflitti con i genitori comparabili con quelli dei loro coetanei occidentali: accettano di buon grado un modello genitoriale autoritario e punitivo e riconoscono la famiglia (e poi il gruppo di appartenenza) come un contesto a cui dover rimanere in qualche modo “fedeli”.
Questo è molto evidente nei colloqui con i minori stranieri non accompagnati (MSNA) che arrivano nei centri di accoglienza e nei servizi psicologici delle comunità educative italiane.
Dialogare con loro significa sempre dialogare anche con la loro famiglia e spesso il percorso dei progetti educativi personalizzati (PEI) a loro proposti , non trovano facile e completa compliance perché si scontrano letteralmente con l’altro progetto, quello familiare (per il quale sono arrivati in Italia, spesso sfidando la morte), di trovare presto un lavoro e mandare i soldi a casa.
La loro adolescenza sembra arrivare prima dei loro coetanei occidentali e le femmine sono subito ingaggiate in ruoli di accudimento domestico, mentre i maschi al sostentamento familiare (sono la maggioranza di quelli che intraprendono i viaggi della speranza).
Sembra proprio (Dwairy, 2004), che questi adolescenti “controllati”, non sentano la necessità di esplorare alternative per lo sviluppo della loro identità e mostrino un livello di interdipendenza emotiva, finanziaria e funzionale con i loro genitori, decisamente maggiore dei loro coetanei occidentali .
Questo rende più complesso il percorso di inserimento scolastico, ludico, ricreativo e formativo in senso lato, proposti dalle agenzie e dai presidi che tutelano e proteggono il minore secondo la nostra legislatura e rappresenta un insieme di dati da cui gli operatori del sociale non possono prescindere.
Il rischio sarebbe di perdere il minore che, non appena maggiorenne e fuori dalla tutela delle strutture, acquisito il fatidico permesso di soggiorno, ricercherà nuovamente ambiti di affiliazione, che purtroppo possono spesso coincidere con culture devianti.
Il nostro lavoro dovrà quindi muoversi nella direzione di creare per l’utente, specie se minore, uno spazio nuovo, di scoperta e di apprendimento di istanze del sé, allenando la funzione del riposizionamento, dove si possano apprendere nuovi modi di sentire, di intuire modalità attraverso una comunicazione che in altri luoghi non erano concepite prima ancora che non essere permesse, rispettando e non contestando il sistema culturale di provenienza.
Il tutto privilegiando una modalità di ascolto e non necessariamente di intervento …
”a piedi nudi sul tappeto” … come direbbe Dwairy.
Bibliografia essenziale: Marwan Dwairy, ” Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani”, 2015, Franco Angeli Editore.